Cave del Barco: le cave di travertino romano di Tivoli
Travertino Romano

Cave del Barco: le cave di travertino romano di Tivoli


Febbraio 24, 2022

Le più antiche cave di travertino si trovano a Tivoli e sono conosciute con il nome di Cave del Barco. Si deve agli antichi romani, intorno al III secolo a. C, la scoperta di questo prezioso giacimento. Più precisamente, le cave si trovano nella valle che si estende ai piedi di Tivoli – Tibur per i romani – ed il nome della pietra naturale si rifà proprio al nome della città: Lapis tiburtinus, la pietra di Tivoli. Anticamente, inoltre, ci si riferiva alla cava con il nome di lapidicina, un chiaro rimando alla pietra, lapis.

Dalle Cave del Barco di Tivoli viene estratto il travertino romano costituito da sedimenti calcarei di origine pleistocenica (ovvero, originati a partire da più di 100.000 anni fa). La formazione di tale pietra naturale richiede un processo millenario di sedimentazione e stratificazione di minerali composti principalmente di carbonato di calcio. La falda acquifera, al cui interno avviene il processo di formazione, è costituita da acque albule o sulfuree, i cui benefici per la salute umana sono molteplici. Per questo i romani crearono attorno a tali sorgenti numerose strutture termali. Tra queste, le terme delle Acque Albule nell’odierna Tivoli Terme, ancora attive.

Cave di travertino Tivoli
Le cave di travertino romano di Poggi Bros.

Ager Tiburtinus, primo “nome” delle Cave

Il primo nome delle Cave del Barco fu, per l’appunto Agro tiburtino. Con questo nome, però, i romani indicavano tutta l’area pianeggiante che si estendeva alle pendici di Tivoli. A delimitare la zona della cava vi erano da un lato la via Tiburtina, dall’altro il fiume Aniene. Entrambi servivano al trasporto dei blocchi estratti. Lungo la via Tiburtina si procedeva, ovviamente, con i carri trainati da buoi e si arrivava fin dentro Roma. La via fluviale, invece, era percorsa da zattere che permettevano ai blocchi di raggiungere le mete designate che si trovavano lungo la riva. Questo è stato sicuramente il metodo scelto per la costruzione di Villa Adriana.

All’epoca, la tecnica estrattiva prevedeva che i blocchi venissero staccati dalla parete di roccia grazie ai picconi. Si procedeva a riempire le spaccature presenti sulla superficie con cunei di legno o alcuni scalpelli in modo da rendere più rapida la separazione del blocco dalla parete.

L’intenso uso di travertino romano è confermato da vari monumenti di epoca romana, quali il Teatro Marcello, Porta Maggiore, il tempio del Divo Claudio e il Colosseo, nonché costruzioni dal valore prettamente funzionale, ad esempio gli acquedotti, ed elementi architettonici come colonne, soglie, stipiti, architravi. I mattoni in travertino utilizzati per costruire le solide fondamenta degli edifici erano disposti a gruppi di quattro, nel cosiddetto opus quadratum. Esempi di queste applicazioni del travertino si ritrovano tanto all’interno di Roma, quanto nelle lussuose ville fuori porta. A Tivoli gli esempi più famosi dell’uso architettonico del travertino romano sono i templi dell’Acropoli e i vari monumenti sepolcrali, prima fra tutti, la Tomba dei Plauzi (un’importante famiglia dell’antica Roma).

cava del barco
La moderna cava del Barco

Cos’è il Barco?

Con la caduta dell’Impero Romano, l’uso delle cave di travertino romano di Tivoli si è ridotto drasticamente, fino al completo abbandono dell’area. Ma questo non significò la completa rinuncia al travertino per la costruzione di nuovi edifici. Dal momento che l’estrazione di questa pietra naturale era giudicata estremamente laboriosa e costosa, si iniziò a riutilizzare il travertino precedentemente estratto, a danno degli antichi edifici e monumenti.

Nel frattempo le cave divennero velocemente una zona paludosa, anche grazie alle continue esondazioni del fiume Aniene.

L’attività estrattiva riprese solamente nel Cinquecento, su impulso della Chiesa di Roma. In quel periodo, infatti, erano iniziati i lavori per la costruzione della Basilica di San Pietro in Vaticano. Come testimonia il Colonnato di San Pietro, qui il travertino romano è stato abbondantemente utilizzato e con risultati spettacolari.

Qualche tempo dopo, il nuovo governatore di Tivoli, Ippolito II d’Este, elesse l’agro tiburtino a propria riserva di caccia. L’area venne per questo chiamata Parco, o per meglio dire “Barco”. Con questo nome, poi, si iniziò a definire anche la sede delle cave, divenute poi per tutti le Cave del Barco.

Da allora, le Cave del Barco non hanno mai cessato la propria attività e, anzi, hanno goduto di un crescente interesse e sviluppo tecnologico. Sono stati apportati, ad esempio, importanti cambiamenti sia per quanto riguarda i trasporti che l’attività estrattiva di per sé. A fine Ottocento, vennero costruite le rotaie per il tram a vapore che serviva a collegare Tivoli con Roma. Così fu possibile sostituire il trasporto su strada dei blocchi con appositi vagoni. Mentre ad inizio Novecento è stato introdotto l’uso del filo elicoidale mosso da pulegge. Questo permetteva un taglio più rapido, preciso e sicuramente meno faticoso del blocco dalla bancata.

Presente & Futuro

Le cave di travertino romano che conosciamo oggi sorgono nella regione del Barco, in quella porzione di agro tiburtino una volta destinata all’attività agricola. Infatti, da generazioni questi terreni appartenevano alla famiglia Poggi che li coltivava. Una volta fatta la scoperta dei giacimenti di travertino nel sottosuolo, però, si pensò di convertire l’area in cava di travertino. Fu così che nel 1923 prese avvio la storia dei Fratelli Poggi e della loro azienda familiare.

In quegli anni, la domanda di travertino romano tornava ad essere ingente, tanto per lavori di costruzione quanto per decorazioni di spazi interni. Con il travertino estratto dalle nostre cave sono stati realizzati, ad esempio, la Fontana del Quirinale e il quartiere dell’EUR, entrambi a Roma.

Dagli anni Sessanta siamo presenti anche sul mercato mondiale e al giorno d’oggi importanti progetti internazionali, come la Bank of China a Pechino, la sede di Apple Inc. a Seattle, il Centre International de Conférences in Algeri, hanno visto la collaborazione dell’azienda Poggi con architetti di grande fama.

Chiaramente gli investimenti per finanziare le innovazioni nel campo della produzione non si sono mai arrestati. Attualmente, infatti, utilizziamo un filo diamantato, altamente resistente, che, affondando in senso verticale nella roccia, separa agevolmente la singola bancata dal bacino. I macchinari impiegati sia nella cava che nei laboratori, per la produzione di blocchi, lastre e pezzi tagliati a misura, sono realizzati da aziende italiane di prima qualità.

La nostra ultima sfida è legata alla trasformazione in industria 4.0 della nostra azienda. Vogliamo puntare sul futuro del settore e quindi sull’automatizzazione di alcuni processi produttivi che richiede l’interconnessione dei macchinari nonché la raccolta dei dati per raggiungere i più alti livelli di produzione. È in questo modo che riusciremo a mettere ancora più in risalto la manualità e l’esperienza sviluppata dai nostri mastri artigiani del travertino.

Filo dimantato Travertino Romano
Il filo diamantato in uso presso le cave Poggi Bros.

Un’industria sostenibile da sempre

In uno spazio come questo dedicato a ripercorrere la storia delle cave di travertino romano di Tivoli, è importante menzionare anche l’attenzione crescente nei confronti del territorio sede dell’attività estrattiva. Oggigiorno, infatti, le aziende estrattive sono sottoposte a tutta una serie di rigidi controlli e vincoli stabiliti dalla legge sia per l’apertura che per la chiusura di una cava. Ad esempio, ogni volta che si esaurisce un bacino di materie prime dal sottosuolo, la l’azienda ha l’obbligo di riempire lo spazio ormai vuoto con terra e roccia proveniente da scavi non inquinanti. Questo nel gergo viene definito “ritombare” e serve a restituire al territorio il suo paesaggio naturale originario.


Si ringrazia il Dott. Zaccaria Mari per l’interessante e approfondito saggio dedicato alla Cava del Barco “La cava del Barco e la piana delle Acque Albule nell’antichità”, 2002.

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